Ghiannis Ritsos è uno dei più grandi poeti greci del Novecento. Ha vinto il premio Lenin per la pace e la sua poesia è un incessante attivismo amoroso e politico. Aderire al Comunismo gli comportò periodi di censura, di prigione e di deportazione nei campi di rieducazione ma non smise mai di dedicarsi alla sua arte (non solo poetica ma anche teatrale) per salvare quel suo innato senso di giustizia sociale che muove il poeta ben oltre se stesso. In questa poesia, tra le ultime scritte prima di morire, in cui la morte è un’ombra prossima e auto-riflettente, l’io autoriale (plurimo e probabilmente collettivo) rimane chiuso in casa, possibile roccaforte di se stesso, rispetto a vecchie figure di donne che, un tempo, avevano creduto nelle stelle. Il mondo di fuori si può osservare dai vetri delle finestre, se ne sente il rumore del lavorìo (fine tessitura esistenziale di chi ha ancora vita davanti e, forse, riferimento alle fabbriche) e ci sono scale in salita con tappeti rossi su cui si arrampicano scioperanti (la libertà è un flusso porporeo ascendente, quasi un empirico climax) ma i loro piedi sono nudi e, come se non importasse a nessuno tranne che al poeta, questa e l’altra porta rimangono non chiuse ma inaccessibili e, forse, è questo il mistero della vita. Tratta da Molto tardi nella notte, Crocetti Editore Poesia Crocetti Editore.
